Non rimane che riporre speranza nel
vaccino, ansimano i governi, poiché i contegni della socievolezza si
son risolti in un disastro, come pandemia naturalmente comporta;
niente sapendo se l'immunità di gruppo possa spiegare superiore
efficacia, sacrificio per sacrificio.
Corre difatti rovinoso il contagio,
quanto liberi i cittadini di muoversi, un'equazione, dall'esecutivo
già ponderato, chiaro, dal momento in cui è la legge medesima che
contempla l'ipotesi dell'impossibilità dello spaziamento tra
persone, difesa prima, conseguenza necessaria di quell'autonomia
dell'agire tendenzialmente illimitata, cara alla modernità
giuridica.
Omaggiando le identiche libertà, la
stessa normativa quindi ammette la diffusione della piaga; cede in
tal modo l'ordinamento di fronte le aporie del suo diritto, il campo
dei tiranni, affatto investendo nella reale salvaguardia della
salute, data alcuna separazione tra individui, specie laddove le
maggiori difficoltà, in ospedali e case di riposo.
Giusto quando la cura degli errori,
delle vicissitudini della gente l'unico motivo di essere dei governi,
ai diritti la nazione rinuncia in parte: allorché riconosciuti,
s'atteggiano a sicuro vettore d'infezione: qualora compressi, oberata
la cittadinanza di carichi non solo odiabili, pure sterili alla
salute.
L'obbligo del distanziamento fisico
associato alla libertà di movimento non consiste d'altro canto in
alcun valore, per quanto ragione impone: a tacer del salubre, come
può in effetti dirsi franco un comportamento cui tanto agevolmente
un proprio pari può interferire, appena esercitando in diversi
l'arbitrio in questione?
Posto che a livello giuridico, alla
luce del potere di ordinanza, nulla di ciò con l'altro contrasta,
ridotto a unità dal provvedimento, al cagionevole fondamento del
suddetto obbligo del resto ne sopperisce altro, di grande momento, a
guardare la struttura del decreto, ovvero la vestizione dei congegni
protettivi, con relativa eccezione. Certo, non usa il legislatore in
questi termini esprimersi, abbracciando piuttosto l'ambiguità della
formulazione. Attesa infatti la tutela della salute essenziale
obiettivo del disporre governativo, beninteso, stride persino con la
logica più banale l'imposizione, nella misura sonante “in
qualunque caso”, dell'utilizzo della fallibile mascherina, salvo
l'avverabile distanziamento, quasi a voler compensare, tramite la
generalità della costrizione, proprio le conseguenze dell'esercizio
appunto diffuso di una ineliminabile libertà di movimento, ferma
l'impraticabilità della dispersione di ogni possibile schiera di
persone.
La delibera, ecco, fuori da ogni ironia
di tal guisa completo disimpegna l'affare, senza difetto, con
discrezione. Una volta enunciata d'altronde, la legge non può che
spiegare un'intrinseca giustizia, in quanto legge, ovverosia
indicazione di una condotta considerata specificatamente giusta,
niente potendo tuttavia tale indefettibilità incidere di valore e
miseria dei significati adoperati alla cura dell'esistenza civile,
veicolati dal diritto, quale coscienza per il d.p.c.m., nonostante in
definitiva giustizia faccia sempre da medio.
Come dire, il medico non tanto stima
del paziente le opache sensazioni, giacché in armonia con il malore,
piuttosto perizia la salute dei sensi, poiché il sentimento non può
dirsi scorretto, se sono i sensi a difettare.
Adesso, il suo presupposto
sia la rappresentazione della volontà del popolo oppure
l'espressione dei più valenti paladini, la legge è legge, non ha
mancanza: ancora, serve l'esistenza, così da lei attingere, per
offrile occasione di riflettersi. La legge pertanto può dirsi utile
nei limiti della realtà, destata di conseguenza da un ordine di
fenomeni maggiore della regola stessa, sicché sempre dispone di
senso, alimento della sua autonomia. La legge dunque si colora della
verità medesima, per come percepita, ebbene di una delle verità, in
tutti i modi! nonché dei significati umani e sociali acquisiti,
ecco, sia per esempio la fattispecie in questione illogica o meno.
Cosicché, concorrendo svariati spostamenti, alla confusione rimedia l'indossare
i dispositivi di protezione, non garanti dell'immunità dal contagio,
tanto bastando all'amministrazione, altri arrangiamenti, nulla osta, i più sobri pur di non faticare a dividere la popolazione nelle costose strutture del caso, chi infetto, chi sospetto, chi rischia la vita, chi non soffre a tal punto.
Quale allora l'aspetto del
senso cui tanto equivoca disciplina attinge? disponendosi peraltro la
compressione della libertà di iniziativa economica?
Ancora, assunto di per sé
compiuto il dettame, da quali circostanze, poste al di fuori della
prescrizione, scaturisce la consapevolezza ispirazione
dell'esecutivo?
Che spirito per la legge in
esame?
Per rispondere, manifestate dal legislatore qualità per un verso financo tiranniche, nella misura della
trasmissione alla cittadinanza di terribili paure, destinataria di
ordini inauditi; avvolte in angosciosi timori, vite salvate e vite
soccombenti.
Insomma, per un contagio
inarrestabile, per i disagi crescenti non rimangono che
accomodamenti, sentimento del paese vuole, premesso che già la norma
contempla tra persone vicinanza necessitata: leggi perciò nutrite di
senso, certo e nondimeno irrazionale, in attesa del vaccino.
In un sola decisione incise
pertanto la sanità della pòlis insieme a quel lavoro, fausto o
meno, cui si dice nobilita l'uomo, fondante la Repubblica: incise ora
nel nome di umili investimenti, altro che Cina, ora di una gratuita
libertà di agire, eguale per tutti, chiaro, sussistente tuttavia
purché non agiscano tutti, quasi che a comprimerla non sia la legge
stessa bensì i cittadini vicendevolmente: sgradevole irrazionalità,
che per giunta si presta all'epidemia.
Da qui certo spavento, in
sintesi per via di un difetto di risolutezza.
Finalmente, diviene
opportuno domandarsi, verificata l'esigua spendita del governo: costituirà forse il
senso della normativa de qua il disimpegno dal tributo alla
malattia?
Crediamo a tal proposito
esista minutezza e vastità del sacrificio, con relative
sostenibilità, tanto come del tributo ne sussiste la giustizia: “il
fuoco non è uno, sono due, per ogni orbita”, cantano Iurchich e Di
Gesù, proprio quando “due le forze in gioco, un solo movimento”.
Sacralità del dolore allora
da intendere innegabile alla stregua del peso del gravame, sì, eppur
ancor di più da ritenersi come volontà di elevare l'esistenza
umana, inclusa la sua difesa, a dispetto di sofferenza e avvilimento.
Di nuovo, voler innalzare i
pregi dell'uomo sulla difficoltà, anelando alla perfezione, per
beneficiare dei doni più lieti del vivere.
Godrà il pianeta di cura
incondizionata.
Mai casuale la malattia, di
lei sia iraconda comprensione.
Questo il momento per togliere alla minaccia la vita.
Possa l'uomo essere antidoto.
Alberto Mannino